Meta ci ricasca. Ancora una volta, l’azienda di Zuckerberg è al centro di uno scandalo legato alla privacy. Ma questa volta ha superato ogni limite: è riuscita a tracciare gli utenti Android anche quando facevano di tutto per non farsi tracciare. VPN? Inutile. Modalità in incognito? Superata. Cancellazione dei cookie? Ridicolo. Il trucco? Una tecnica geniale quanto inquietante: il cosiddetto “localhost tracking”.
A scoprirlo è stato un gruppo di ricercatori guidati dal professor Narseo Vallina-Rodriguez, e il meccanismo è tanto astuto quanto subdolo. Grazie alle app di Facebook e Instagram installate sugli smartphone Android, Meta attivava un servizio di rete locale che restava sempre in ascolto. Un piccolo “orecchio” digitale che, silenzioso e invisibile, riceveva dati dalla navigazione web dell’utente.
Ma come? Attraverso il Meta Pixel, quel piccolo frammento di codice presente in milioni di siti (inclusi quelli per adulti) che permette di monitorare ciò che facciamo online. Quando si visita una pagina che integra il Pixel — ad esempio perché c’è il pulsante “like” o “condividi su Facebook” — entra in gioco il trucco.
Il pixel invia un messaggio attraverso il protocollo WebRTC, lo stesso usato per le videochiamate su Meet o Zoom. Ma i dati non vengono mandati in chiaro: vengono camuffati all’interno del messaggio iniziale del protocollo (tramite una tecnica chiamata SDP Munging), così da risultare invisibili ai controlli. In questo modo, il sistema locale attivo sul telefono riceve informazioni anche in assenza di cookie attivi o autorizzazioni esplicite.
La genialata (illecita) sta nel fatto che i dati raccolti — apparentemente anonimi — vengono poi riconciliati con l’identità reale dell’utente. Come? Semplice: l’app, già autenticata con nome e cognome, prende quell’identificativo ricevuto dal Pixel e lo collega all’account personale. Risultato? Anche se stai navigando su un sito “sensibile” in incognito, Meta può dire con certezza che tu, Mario Rossi, hai appena visitato quella pagina. Senza il tuo consenso.
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