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    Home»Attualità»Lo storico piano di pace di Trump per la Palestina e la capitolazione di Israele
    Attualità

    Lo storico piano di pace di Trump per la Palestina e la capitolazione di Israele

    10 Ottobre 202511 Mins Read
    Lo storico piano di pace di Trump per la Palestina e la capitolazione di Israele
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    A Gaza, i bambini festeggiano e gridano di gioia.

    Per la prima volta dal 7 ottobre del 2023, il popolo palestinese ha di fronte a sé un futuro che non sia quello di morte e distruzione che Israele gli ha inferto da due anni a questa parte.

    Iniziò tutto con l’attacco da parte delle milizie di Hamas che ormai può considerarsi a tutti gli effetti come parte di un piano di Israele per iniziare la sua genocida campagna contro Gaza e annettersi i territori della Striscia.

    A rivelarlo sono stati diversi militari israeliani che hanno confermato come ricevettero l’ordine da parte del proprio comando di non intervenire contro Hamas, e di lasciar passare le milizie che dovevano invadere quei confini tra i più sorvegliati al mondo.

    Hamas “piomba” su Israele con i suoi parapendii

    L’esercito israeliano non solo non oppose alcuna resistenza ad Hamas, ma i suoi stessi membri piuttosto che difendere la vita dei comuni cittadini israeliani, aprirono il fuoco contro di essi.

    Le forze armate israeliane avevano l’ordine non di proteggere i civili, ma di sparare contro di essi.

    Il governo di Benjamin Netanyahu voleva che gli israeliani versassero il loro tributo di sangue per consentire al suo partito di mettersi sulle tracce del folle piano imperialista che il sionismo messianico rincorre da molto tempo, che altro non è che la famigerata Grande Israele.

    A rivelarlo molti anni addietro, nel 1990, di fronte al consesso delle Nazioni Unite fu l’ex leader dell’OLP, Yasser Arafat, che mostrò che il disegno di questo impero israeliano che si estendeva per larghissime parti del Medio Oriente, era persino presente sulle monete e sulle divise dell’esercito di Israele.

    Israele già allora inseguiva il suo impero nella spasmodica attesa del suo moshiach, una figura carismatica che secondo il sionismo un giorno guiderà lo stato di Israele verso il dominio del mondo.

    Ad attendere questa figura sono molte sette sioniste, tra le quali la famigerata Chabad Lubavitch, che ha sussurrato all’orecchio di molti presidenti degli Stati Uniti e soprattutto a quello di Netanyahu che già da giovane aveva un rapporto molto stretto con il suo storico leader, il rabbino Menachem Schneerson.

    Menachem Schneerson

    Schneerson disse prima di morire che dopo il governo di Netanyahu ci sarebbe stata l’attesa manifestazione del moshiach, perché il rabbino sapeva che il premier israeliano avrebbe cercato sin dal suo esordio nella politica israeliana nel 1995 di estendere i confini di Israele e di portarli verso l’annessione di Gaza, della Giordania, del Libano, di parti dell’Egitto e persino dell’Arabia Saudita.

    La corsa di Bibi al potere fu spianata dalla morte di un altro leader israeliano, il sionista progressista, Yitzhak Rabin, ucciso nel 1995 da un esponente del sionismo messianico a detta di diverse fonti israeliane sostenuto dall’intelligence israeliana della Shabak.

    La morte di Rabin permette la nascita di Netanyahu che sin da quell’istante aveva già chiaro qual era il suo fine ultimo.

    Israele doveva far nascere il suo impero, e poco importa se ciò sarebbe costato la vita a diversi israeliani non molto appassionati da questa filosofia messianica, e soprattutto poco importa se a pagare il prezzo sarebbero stati i morti americani dell’11 settembre e quelli delle guerre scatenate dai guerrafondai sionisti neocon che dominavano l’amministrazione Bush.

    Nessuna vita viene risparmiata da questo manipolo di pericolosi esponenti del sionismo messianico che hanno continuato a seminare caos e morte nel Medio Oriente anche negli anni successivi attraverso la creazione dell’ISIS, più che un gruppo terroristico, un vero e proprio brand di tagliagole sostenuti sin dall’inizio dalle monarchie del Golfo, all’epoca ancora vicine a Israele, e ovviamente dalla stessa Israele che si è servita di tali barbari assassini per colpire tutti coloro che erano contrati all’imperialismo israeliano.

    La fine della supremazia sionista: l’epoca di Trump

    A mettere fine a questa continuità e a questa politica del caos permanente è stato Donald Trump.

    Sin dai primi passi della sua parabola politica, il presidente degli Stati Uniti si è trovato a dover fare i conti con la potente rete sionista che già nel 1963 aveva deciso di eliminare il presidente Kennedy per la sua ferma opposizione al programma nucleare israeliano che costituiva, e costituisce, una grave minaccia per la pace in tutto il Medio Oriente.

    Il tributo pagato da JFK è stato elevatissimo.

    Il presidente fu ucciso sulla Dealey Plaza di Dallas per permettere al suo vicepresidente Lyndon Johnson, partecipe della cospirazione criminale, di salire al potere e di dare mano libera a Israele di procedere con il suo programma nucleare e di annettere parti degli Stati arabi limitrofi, come le alture del Golan, tuttora illegalmente occupate dallo stato ebraico dopo la famigerata guerra dei 6 giorni del 1967.

    Lyndon Johnson

    Talmente profonda era la sottomissione di Johnson a Israele che quando questa attaccò, sempre in quell’anno, una nave americana, la USS Liberty, il presidente non mosse un dito contro l’”alleato” degli Stati Uniti, e continuò fino alla fine del suo mandato ad assicurare il suo pieno sostegno allo stato di Israele.

    Trump doveva recidere ognuno dei fili che legavano gli Stati Uniti ad Israele, ma ha saputo farlo con abilità, astuzia e sagacia, conscio che l’intero apparato mediatico è saldamente nelle mani della rete sionista.

    Se a parole ci sono state generiche dichiarazioni di “amicizia” nei riguardi di Tel Aviv, nei fatti a poco a poco Trump ha tolto allo stato ebraico l’ombrello militare americano già a partire dal primo ritiro delle truppe americane in Siria nel 2019, fino a proseguire l’opera negli anni del suo secondo, o terzo come dice lo stesso Trump, mandato.

    Il presidente degli Stati Uniti in questo suo mandato ha messo fuori dalla porta l’AIPAC, la potentissima lobby filo-israeliana che ha deciso per decenni la politica estera di Washington, e tagliato i ponti con i ricchissimi coniugi Adelson, storici finanziatori sionisti del partito repubblicano che si sono visti ignorati dal presidente che ha messo al primo posto gli interessi americani e non quelli dello stato ebraico.

    A Tel Aviv, erano, e sono, a dir poco furenti.

    Se a parole Trump fa qualche dichiarazione di sostegno a Israele, nei fatti c’è una politica estera che non va per nulla nella direzione di Israele, ma piuttosto verso quella dei Paesi arabi.

    Trump sta mettendo in atto quello che volle e non poté fare JFK.

    Kennedy voleva inaugurare un nuovo corso di politica estera molto più vicino al mondo arabo perché gli Stati Uniti non hanno alcun interesse a sobillare le tensioni con i Paesi islamici, ma gli fu, come visto, impedito.

    Trump ha ripreso in mano il filo di Arianna di JFK.

    Washington sta assumendo una dimensione chiaramente più favorevole al mondo arabo, e il primo importantissimo segnale lo si è avuto nella scorsa primavera quando il presidente si recò a marzo in Medio Oriente, senza fermarsi a Tel Aviv, e condannò tutta la politica estera dei falchi sionisti neocon che affermavano di voler “esportare la democrazia” nei Paesi arabi, quando in realtà il sionismo voleva soltanto esportare la dottrina del regime change per togliere di mezzo i governi considerati avversari da Israele.

    L’accordo di pace in Palestina è il completamento di questo cammino e la capitolazione di Israele.

    Israele due anni orsono aveva tentato il tutto per tutto attraverso il false flag del 7 ottobre del 2023 nella disperata ricerca della agognata Grande Israele, ma è evidente che è mancato il sostegno di Washington per giungere a tale proposito, e lo stato ebraico senza l’America è meno di una tigre di carta.

    Nulla può fare per soverchiare le forze armate o le milizie dei Paesi vicini, e se né è avuta, ancora una volta, una conferma quando Tel Aviv invase il Libano nel 2024 per raccogliere soltanto umiliazioni dai miliziani ben addestrati di Hezbollah, fino all’altra folle campagna di bombardamenti contro l’Iran, culminata in una pioggia di missili balistici iraniani che hanno superato senza sforzo il colabrodo della contraerea israeliana, sempre più a secco da quando gli Stati Uniti hanno interrotto i rifornimenti.

    Trump è stato molto chiaro verso Israele. “Non potete vincere contro il mondo intero”, e questo è un messaggio netto e inequivocabile verso il sionismo che il presidente considera chiaramente come una minaccia verso gli Stati Uniti ma anche per il mondo intero, perché, in tale filosofia, come ha spiegato uno dei suoi esponenti, il ministro delle Finanze israeliano, Bezalel Smotrich, chi è ebreo appartiene al “popolo eletto”, e chi non lo è, è una sorta di essere inferiore, o un goy se si vuole ricorrere alla terminologia talmudica.

    A poco a poco, con sapienza e astuzia, Donald Trump ha smontato l’apparato della potente rete sionista, e ora si appresta a completare attraverso un altro storico viaggio in Medio Oriente nel quale suggellerà la pace raggiunta.

    Israele così capitola.

    Nella notte, e dopo diversi rinvii per temporeggiare un po’, accetta finalmente il piano di pace che prevede il ritiro delle sue truppe, la costituzione di una sorta di tecnocrazia temporanea presieduta da Trump che si incaricherà di governare la Palestina in previsione futura della costituzione di una entità statuale che il presidente ora non vuole mettere subito sul tavolo, ma che già ventilò anni addietro.

    Muore anche l’opposizione controllata di Hamas che Israele aveva costruito accuratamente nel corso degli ultimi 30 anni, poiché i miliziani dovranno abbandonare Gaza, e ora si apre un vuoto politico in Palestina che sarà riempito probabilmente da qualcosa di non gradito allo stato ebraico.

    Israele verso la resa dei conti interna?

    Nelle aule del governo israeliano, l’atmosfera è quindi inevitabilmente depressa. I volti dei ministri e dei vari ufficiali governativi sono a dir poco terrei, e prima della ratifica dell’accordo, ci sono stati durissimi scontri in seno al gabinetto di Netanyahu.

    Il citato ministro Smotrich aveva fatto sapere di essere contro il piano di pace, e assieme a lui si è unito un altro pericoloso esponente del sionismo messianico come il ministro della Sicurezza Nazionale, Ben Gvir, che soltanto due giorni prima si era recato alla moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme per recitare i versi del Talmud nella ennesima provocazione verso quel luogo, dove il sionismo vorrebbe ricostruire il suo Terzo Tempio, il posto nel quale un giorno dovrebbe entrare il tanto atteso, da costoro, moshiach.

    A sinistra, Ben Gvir, a destra Smotrich

    Ben Gvir ha chiaramente detto che se Hamas non verrà smantellata, sarà lui a smantellare il governo, una metafora per dire che se l’esecutivo israeliano non è più in grado di far nascere la Grande Israele, l’esperienza governativa può considerarsi quindi conclusa.

    Il governo Netanyahu, già privo della maggioranza assoluta nella Knesset, si avvia dunque con ogni probabilità alla conclusione.

    Appare difficile decifrare ora il futuro della politica israeliana perché le fratture e soprattutto le faide sono molte, e in questo momento i vari partiti non sembrano avere un’idea chiara su quale corso deve seguire lo stato ebraico.

    I sionisti messianici sono ancora furenti e divisi tra di loro perché il presidente Trump ha messo il veto sulla Grande Israele e fatto fallire il piano espansionista di Israele.

    Le opposizioni centriste e progressiste sembrano voler voltare pagina, ma non è esattamente chiaro se saranno in grado di vincere le future elezioni e di governare il Paese, ma soprattutto non è chiaro se sapranno trovare un compromesso invece con il Likud e gli altri partiti del sionismo radicale.

    Il malessere scorre profondo nella società israeliana.

    La convivenza tra il talmudismo religioso e il sionismo secolare appare sempre più complicata, e alla fine sembra che i sogni di gloria che inseguiva il Likud si stiano per infrangere contro il muro di una guerra civile, che sotto certi aspetti è già in essere da diverso tempo, attraverso la manifestazione di strani attentati e sparatorie contro i civili israeliani, nemmeno rivendicate da nessuna presunta sigla terroristica.

    Israele si ritrova al punto nel quale l’aveva lasciata Rabin prima della sua morte.

    Divisa e incapace di trovare un accordo sul futuro e sul cammino da seguire.

    Se lo stato ebraico vorrà avere qualche possibilità di vivere in un secolo ormai non più propriamente ebraico e sionista, a differenza del XX, dovrà guardarsi dentro e considerare la natura di uno stato che sin dalla sua creazione è stata una entità di destabilizzazione per il Medio Oriente e il mondo intero.

    Il futuro saprà dare delle risposte più certe su quale direzione prenderà lo stato ebraico concepito da Theodor Herzl, ma intanto non si può fare a meno di notare una evidenza incontrovertibile.

    Il sionismo ha esaurito il suo potere. Il sionismo non domina più gli Stati Uniti e la politica internazionale.

    Il multipolarismo ha creato una dimensione nuova, nella quale non c’è più la supremazia degli imperi ma piuttosto la parità tra gli Stati nazionali.

    Se Israele non saprà adattarsi a questa nuova realtà, difficilmente supererà la prova del XXI secolo.

    Fonte: https://www.lacrunadellago.net/lo-storico-piano-di-pace-di-trump-per-la-palestina-e-la-capitolazione-di-israele/


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